domenica 3 dicembre 2023

Canto XXVI dell'Inferno di Dante

Il canto XXVI dell'Inferno di Dante è uno dei passi più significativi dell'intera Divina Commedia, non solo per la sua rilevanza all'interno della narrazione, ma anche per la complessità dei temi trattati.  

Contesto 

Siamo nella sesta bolgia dell'ottavo cerchio, quella dei falsari, dove sono puniti coloro che hanno commesso atti di frode. Questa bolgia è divisa in quattro sottocategorie: i falsari di persone, i falsari di monete, i falsari di parole e i falsari di fede. Dante incontra tre personaggi: Vanni Fucci, falsario di cose sacre; Guido da Montefeltro, falsario di parole; e Capocchio, falsario di metalli. Oltre alla punizione dei falsari, nel Canto viene narrato l'episodio di Ulisse e Diomede, che rappresenta l'ambizione umana che porta alla perdizione. Il contesto del Canto XXVI è quindi incentrato sulla tematica della frode e della menzogna, intese come violazione della verità e del bene comune. Dante vuole mostrare come la menzogna sia un male profondo che può condurre all'eterna dannazione. Inoltre, il Canto rappresenta una riflessione sulla natura umana e sulla responsabilità morale delle proprie azioni. L'incontro con Guido da Montefeltro, ad esempio, mostra come la confessione dei peccati sia un passaggio fondamentale per la redenzione dell'anima e per la riconciliazione con Dio. Il Canto si inserisce quindi in un contesto più ampio all'interno della Divina Commedia, dove il tema della giustizia divina e della salvezza dell'anima sono centrali.

 

La Punizione dei falsari 

La punizione dei falsari è uno dei temi principali del canto. L'autore descrive le torture inflitte ai falsari, i quali sono puniti in diverse maniere a seconda del tipo di frode commessa. Ad esempio, i falsificatori di metalli vengono costretti a camminare scalzi su un terreno rovente, mentre i falsificatori di parole e di scrittura sono costretti a giacere immersi in una pozza di melma bollente. La punizione più estrema viene riservata ai falsificatori di monete, che vengono crocifissi e lasciati morire lentamente.Il tema della falsificazione ha una forte valenza morale nel Canto, poiché rappresenta un attacco alla verità e alla giustizia. Inoltre, la punizione inflitta è vista come una sorta di giustizia divina che ripristina l'ordine morale del mondo. Tuttavia, Dante non si limita a descrivere le torture inflitte ai dannati, ma si sofferma anche sulla loro psicologia. Infatti, essi sono costretti a vivere in un ambiente corrotto, dove la verità è distorta e la realtà è manipolata. Questo li rende incapaci di riconoscere la verità quando la vedono e li porta a perpetuare il loro ciclo di falsità e menzogna. In conclusione, la punizione dei falsari rappresenta una critica morale al peccato e alla corruzione. La descrizione delle torture inflitte serve a sottolineare l'importanza della verità e della giustizia come valori fondamentali della società umana.

 

L'episodio di Ulisse 

L'episodio di Ulisse rappresenta uno dei momenti più significativi dell'intera opera. La figura dell'eroe dell'Odissea viene utilizzata da Dante come esempio di colui che ha superato i limiti imposti dalla natura umana e ha osato sfidare gli dei. Il personaggio racconta la sua ultima avventura, quella che lo ha portato oltre le Colonne d'Ercole, fino a quando la nave e l'equipaggio furono inghiottiti dal mare. L'interpretazione di questo episodio è complessa e può essere letta in diversi modi. Alcuni studiosi vedono in Ulisse un esempio di saggezza e perseveranza, capace di affrontare ogni difficoltà pur di raggiungere il suo obiettivo. Altri, invece, lo considerano un simbolo della superbia umana, che porta alla rovina chiunque tenti di sfidare la volontà divina. In entrambi i casi, però, l'episodio di Ulisse rappresenta una sorta di metafora dell'umanità stessa, costantemente alla ricerca della conoscenza e della verità, ma spesso incapace di accettare i limiti imposti dalla natura o dalla divinità. In questo senso, il personaggio di Ulisse assume un ruolo emblematico nell'opera dantesca, rappresentando sia il desiderio di conoscenza che la sua ambiguità morale.

 

Guido da Montefeltro 

Il personaggio di Guido da Montefeltro è uno dei più interessanti e complessi del poema. Guido è un ex-guerriero e politico che si trova nell'ottavo cerchio dell'Inferno, destinato alla punizione dei consiglieri fraudolenti. La sua confessione a Dante è un momento cruciale del canto, in cui rivela la sua storia e il motivo per cui si trova in quell'antro oscuro. Guido racconta di essere stato ingannato dal papa Bonifacio VIII, che gli chiese di consigliarlo su come conquistare la città di Palestrina. Guido suggerì l'uso della frode, ma poi si pentì e confessò il suo peccato a frate Francesco d'Assisi, ricevendo l'assoluzione. Tuttavia, quando morì, fu condannato all'Inferno per il suo peccato di consiglio fraudolento. La confessione di Guido mette in luce la sua complessità morale e la sua ambiguità come personaggio. Da un lato, ha commesso un peccato terribile che ha causato la morte di molte persone; dall'altro, ha cercato di redimersi attraverso la confessione e l'assoluzione. Inoltre, la sua confessione svela l'ipocrisia del papato e il tema della corruzione nella Chiesa. In questo modo, il personaggio di Guido da Montefeltro rappresenta uno dei momenti più intensi e profondi dell'Inferno di Dante, offrendo una riflessione sulla morale e la giustizia umana.

 

Le allusioni storiche 

Le allusioni storiche nel canto rappresentano un elemento importante per la comprensione del testo. Infatti, l'autore fa riferimento a personaggi storici e mitologici, utilizzandoli come metafore per descrivere la punizione dei falsari. Uno dei personaggi menzionati è Gianni Schicchi, un famoso imbroglione che rubò l'eredità di un morto fingendosi lui stesso il defunto. Questo episodio è una chiara allusione alla realtà politica dell'epoca, in cui molti furono i casi di usurpazione del potere e delle proprietà altrui. Altri personaggi citati sono Mida e Crisippo, entrambi noti per la loro avidità e inganno. Inoltre, Dante fa anche riferimento alla leggenda greca di Icaro, il quale volò troppo vicino al sole con le ali fatte di piume e cera, sciogliendosi e precipitando nella morte. Questa storia viene utilizzata per rappresentare la caduta dei falsari e la loro fine tragica. Infine, è presente anche un'allusione alla Bibbia, quando Dante parla della "grande cagna", ovvero Cerbero, il cane a tre teste che custodisce l'ingresso dell'Inferno. In generale, le allusioni storiche presenti in questo canto permettono di comprendere meglio il contesto culturale dell'epoca e l'attenzione di Dante nei confronti dei vizi umani e della loro punizione divina.

 

Il ruolo della retorica 

Il ruolo della retorica nel canto è di grande importanza, poiché l'autore utilizza la figura retorica dell'apostrofe per esprimere il suo disgusto verso la falsità. La retorica utilizzata da Dante serve a sottolineare l'enorme gravità del peccato commesso dai falsari, che hanno alterato la verità e il valore delle cose. Inoltre, il poeta utilizza la tecnica della domanda retorica per mettere in discussione l'integrità morale dei falsari, chiedendo loro come possano dormire la notte dopo aver compiuto tali azioni malvagie. In questo modo, Dante vuole evidenziare come la falsità sia in grado di corrompere anche le persone più virtuose e oneste, portandole ad agire contro la morale e il bene comune. La retorica utilizzata da Dante in questo canto dimostra quindi l'importanza che egli attribuisce alla verità e alla giustizia, valori fondamentali per una società equa e solidale.

 

L'eredità del canto XXVI nella letteratura italiana

Il canto XXVI dell'Inferno rappresenta un importante punto di svolta nella letteratura italiana, poiché ha influenzato numerosi scrittori successivi. La descrizione delle punizioni inflitte ai falsari, l'episodio di Ulisse e la confessione di Guido da Montefeltro sono solo alcune delle tematiche che hanno ispirato autori come Gabriele D'Annunzio, Luigi Pirandello e Umberto Eco. In particolare, l'immagine dei falsari che si consumano in una malattia putrefatta ha ispirato la descrizione della decadenza fisica e morale di personaggi come il protagonista del romanzo "Il Fu Mattia Pascal" di Pirandello. Inoltre, la figura di Ulisse è stata utilizzata come simbolo dell'eroe moderno in opere come "L'infinito viaggiare" di Claudio Magris. La confessione di Guido da Montefeltro ha ispirato invece riflessioni sul tema della giustizia e della responsabilità morale, come in "Il nome della rosa" di Eco. Infine, le allusioni storiche presenti nel canto hanno influenzato la narrazione storica e politica italiana del Novecento, come ad esempio in "Il Gattopardo" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In sintesi, il canto XXVI dell'Inferno di Dante rappresenta un vero e proprio patrimonio culturale che ha influenzato non solo la letteratura italiana ma anche l'immaginario collettivo del paese.

 


giovedì 4 agosto 2022

La gnosi nel nostro tempo

Sono fermamente persuaso che oggi più che mai la conoscenza dell’eresia del cristianesimo cattolico sia importante quanto la conoscenza della dottrina, perché l’eresia, termine non a caso bandito dal dibattito teologico e soprattutto pastorale, altro non è che dottrina declinata in termini contrari, come un’immagine negativa che permette di cogliere sfaccettature che quella positiva non riesce a fornire, così com’è avvenuto in modo se non miracoloso sicuramente prodigioso nel caso della Sacra Sindone di Torino.

Il tema trattato in questo intervento, la gnosi nel nostro tempo, potrebbe sembrare una contraddizione perché l’errore che spesso si commette trattando delle eresie è quello di considerarle dei movimenti di idee ormai esauriti mentre nella realtà esse in varia misura nel corso dei secoli si ripropongono anche se in forme diverse rispetto all’edizione originaria, ma con sempre maggiore veemenza, come se il decorso del tempo attribuisse loro una forza di inerzia che in determinate condizioni di tempo e di luogo appare irresistibile. Chesterton infatti con la consueta arguzia riteneva che “il 90% di ciò che chiamiamo nuove idee sono semplicemente vecchi errori. Uno dei principali compiti della Chiesa Cattolica è far sì che la gente non commetta questi vecchi errori, in cui è facile cadere ripetutamente se le persone vengono abbandonate, sole, al proprio destino”.

Per cercare di fornire una risposta convincente al tema assegnato farò riferimento in particolare a un libretto del 2016 recentemente tradotto - direi ottimamente - in italiano, che rappresenta il paradigma della riproposizione virulenta di eresie del passato: I diritti dell’uomo contro il popolo di Jean Louis Harouel, un importante storico francese. Un libro che partendo dalla realtà francese, peculiare ma paradigmatica, spiega in maniera chiara e tutto sommato condivisibile come dietro al più grande attacco che la civiltà cristiana ha subito - attacco in pieno svolgimento - ci sono due pericolose eresie che fondendosi hanno eliminato il soggetto proprio della religione, cioè Dio, sostituendolo con l’uomo, spalancando in tal modo le porte all’ateismo sotto le spoglie della c.d. religione secolare dell’umanità, la cui radice è appunto la divinizzazione dell’ego.  

La prima di queste eresie è la gnosi, un’antica eterodossia dalle basi teologiche molto deboli, talmente fragili che già nel II° secolo il beato vescovo Ireneo da Lione ne denunciò l’inconsistenza limitandosi a un fugace riferimento alla celebre parabola della zizzania.

Gli gnostici propongono l’idea dell’uomo - dio, un uomo cioè che porta dentro di sé una scintilla di Dio e che - caduto sulla terra non per colpa (peccato originale) ma per una sorta di capriccio del Dio minore ossia quello del Vecchio Testamento - tende ontologicamente a ricongiungersi con il Dio buono, quello del Nuovo Testamento. Vi è dunque una contrapposizione tra il Deus creator e il Deus salvator. Secondo gli gnostici l’uomo divinizzato, pur scaraventato suo malgrado nella realtà secolare, non ha perso nulla della sua natura e, dunque, è partecipe dei privilegi della divinità e, di conseguenza, sciolto dalle leggi naturali e morali che sostanzialmente non lo riguardano, così come non lo riguardano gli insegnamenti biblici, il senso della famiglia, della patria, dell’ordine sociale. Ne deriva l’orrore per tutto ciò che ha a che fare con la materia: procreazione, matrimonio, proprietà, ma anche il cibo, il vino, la gioia, lo stare insieme ecc. Concetti estranei alla natura divina cui l’uomo gnostico partecipa. 

Messa così la gnosi è una distorsione della dottrina cattolica ma direi, da un punto di vista squisitamente filosofico, una rielaborazione perversa del pensiero di Platone (teoria dell’anima in particolare) che indubbiamente contiene elementi pericolosi ma che dalla Scolastica in poi - soprattutto attraverso la mirabile fusione operata da Tommaso d’Aquino con il pensiero di Aristotele - aveva trovato una esatta e corretta collocazione all’interno del sistema teologico ortodosso costituendo per secoli il baluardo contro errori dottrinali della peggiore specie.

Secondo l’autore del libro l’altra grande fonte della religione secolare dell’umanità è il millenarismo, un'antica eresia ereditata dal giudaismo che in estrema sintesi - ignorando il dato oggettivo che Gesù ha spostato verso il Cielo la promessa del regno di Dio - annuncia che prima della fine dei tempi Cristo tornerà sulla terra per fondare un regno di felicità assoluta che durerà mille anni, da qui il nome. 

Da quanto succintamente detto, gnosi e millenarismo sono due eresie apparentemente inconciliabili tra loro. Secondo l’autore del libro fu l’intuizione di un abate calabrese vissuto nel XII secolo, Gioacchino da Fiore, a far sì che il matrimonio tra loro incredibilmente avvenisse, perché in realtà il presupposto della prima eresia (uomo / dio) è di fatto il fine della seconda (paradiso in terra): il millenarismo, con lo scopo di instaurare il paradiso in terra per mille anni, poteva far propria la concezione gnostica dell’uomo – dio e legittimare così l’instaurazione del regno dell’umanità divinizzata.

Se è vero, com’è vero, che le due eresie ad un certo punto si fusero per dar vita a un unico e autonomo movimento eretico ciò a mio avviso non deve essere imputato all’opera di Gioacchino da Fiore se non altro perché il suo pensiero – invero assai complesso – non è stato mai condannato dalla Chiesa, tant’è che Dante nella sua Commedia lo colloca tra i beati del Paradiso. Vero è invece che alcune tesi dell’abate furono condannate dall’Università di Parigi nei primi anni del XIII secolo, circostanza che probabilmente ha influenzato il giudizio dell’autore.

In ogni caso è indiscutibile che le due eresie ad un certo punto si fusero in un unico programma finalizzato all’instaurazione del paradiso in terra. Evidentemente per realizzare ciò non era sufficiente un sistema religioso ma un sistema politico, perfettamente rappresentato dai comunismi che incarnano i tratti di una religione laica: Dio deve essere sostituito dal divenire storico materialista, il mondo deve diventare un paradiso e l’umanità è divina.

Il sistema dei millenarismi gnostici – fin dalle forme primordiali di comunismo - è sempre lo stesso: è l’idea di una eterna contrapposizione manichea – quindi gnostica – tra il bene e il male, tra ciò che rappresenta l’amore e l’odio: proletariato e borghesia nell’edizione più matura, quella marxista, laddove il primo deve distruggere la seconda per tornare a quella dimensione di felicità originaria della quale godeva l’umanità. Da qui l’assolutizzazione del potere e il ricorso alla violenza e ad ogni mezzo per realizzarlo; da qui la giustificazione di ogni mezzo per raggiungere il fine dato.

Il comunismo è stato condannato dalla storia ma l’idea millenarista ha impiegato meno di 20 anni per risorgere clamorosamente, riciclandosi in quell’ectoplasma senza morale né dignità comunemente definito globalismo, la cui nascita era stata prevista da filosofi come Del Noce - ripreso da Guareschi e in parte da Pasolini – che avrebbe fatto propria la vocazione gnostico / millenarista a sovvertire l’ordine mondiale fondato sugli stati nazionali (popolo – lingua – territorio) per instaurare un presunto paradiso sulla terra fondato non più sulla eliminazione della borghesia ma sulla distruzione di ogni differenza tra individui che, pertanto, diventano perfettamente intercambiabili (africano = europeo). 

Per fare questo bisognava puntellare quella religione secolare dell’umanità che nella prima declinazione aveva mostrato delle falle e che, quindi, bisognava rendere quanto più inclusiva possibile, dipingendola non a caso con tutti i colori dell’arcobaleno con a supporto dei dogmi altrettanto variopinti: i c.d. diritti umani. 

A questo folle progetto si contrappongono due baluardi percepiti come nemici da distruggere ad ogni costo proprio attraverso i dogmi della religione secolare dell’umanità, i diritti umani:

1) baluardo politico: il sistema delle società occidentali, con le loro legislazioni, la loro religione, l’attaccamento alla loro storia, l’idea di nazione, il tessuto sociale, le tradizioni, il popolo che resiste alla sua trasformazione in una non meglio definita umanità;

2) baluardo religioso: la Chiesa cattolica, con i suoi dogmi e principi immutabili.

Vediamo come i diritti umani, concetto di per sé neutro se non addirittura insignificante, sono stati costruiti e impiegati in funzione di questo progetto di salute pubblica di matrice gnostica proprio in quelle società cristiane che hanno visto tali diritti – seguendo l’insegnamento costante dei pontefici – con sospetto se non addirittura con avversione.

In linea di principio il diritto si fonda su valori eterni e trascendenti destinati ad assicurare per lungo termine l’esistenza della società che sostiene. 

Prendiamo come paradigma il matrimonio. Nella concezione tradizionale cristiana è il diritto di ogni uomo e di ogni donna di legarsi poiché reciprocamente e liberamente si sono scelti non per appetito istintivo – che è incapace di scelta tendendo a soddisfare il proprio ego – ma per dilezione, concetto che aggiunge al concetto di amore quello della libera e disinteressata scelta. Diritto che è saldamente fondato sulla dignità umana che affonda le proprie radici sulla creazione (Tommaso d’Aquino) e non dipende dal riconoscimento sociale (pensiamo a Genesi o alle bellissime parole di San Paolo). Possiamo quindi dire che il matrimonio è un diritto naturale (per S. Tommaso addirittura un compito naturale) fondato sul rapporto di un uomo + una donna con la trascendenza. Laddove invece – come accade - i diritti vengono formulati e prodotti senza considerare il rapporto con la trascendenza ma unicamente in funzione contingente, immanente, egoistica o autistica – quindi in maniera totalmente atea - si pretende di applicare lo schema a qualsiasi rapporto umano, anche quello tra due persone dello stesso sesso, dove difetta ogni dilezione perché difetta la sua precondizione: l’iscrizione nel grande libro della natura che, piaccia o no, non facit saltus. 

Argomentando come sopra, cioè togliendo da una qualsiasi situazione giuridica il rapporto con il trascendente, gli esempi diventano potenzialmente infiniti. Pensiamo al diritto alla vita. La vita umana che cos’è? E’ una realtà trascendente e, quindi, sacra e intangibile, cioè sottratta alla libera disponibilità dell’uomo, oppure è una situazione esistenziale come tante, una esperienza soggettiva lasciata nella libera disponibilità dell’uomo? E’ evidente che se consideriamo la vita come un dono indisponibile aborto e eutanasia sono dei crimini, se la consideriamo una situazione soggettiva sono dei diritti inalienabili. Gli esempi potrebbero continuare applicando il medesimo schema: teoria del gender, immigrazionismo, libertà religiosa ecc., sbandierati dei megafoni del main stream come conquiste sociali, come diritti inalienabili dell’individuo.

Da pochi esempi si può capire come il cancro gnostico tenga ben salda la presa sulla nostra civiltà, svelando il disprezzo per il creato, per tutto ciò che è generazione e vita. E lo fa attraverso una elaborazione tutta particolare dei diritti umani, intesi come delle situazioni soggettive assolutizzate, del tutto sganciate dall’ordine della creazione e dal trascendente, il cui riconoscimento produce l’effetto opposto rispetto a quello che il diritto dovrebbe produrre: non la conservazione della società ma la sua distruzione.

Il perché è intuitivo. Avevamo detto all’inizio che la gnosi disprezza tutto ciò che è natura e tutto ciò che la genera e riproduce. In un’epoca di forte calo demografico, il riconoscimento di presunti diritti umani come matrimonio tra persone dello stesso sesso, aborto, eutanasia, teoria del gender ecc. produrranno nel medio termine una accelerazione del calo demografico, nel lungo termine l’annientamento delle società occidentali e in ultima analisi la distruzione demografica e dell’umanità in generale. Ecco perché, dunque, Stato e Chiesa – istituzioni ontologicamente deputate alla salvaguardia materiale e spirituale degli individui - sono i due baluardi che stanno subendo gli attacchi più feroci: quello politico - gli stati nazionali - attraverso l’immigrazione selvaggia; quello religioso - il cristianesimo cattolico - attraverso il relativismo gnostico, l’ecumenismo e la distruzione della Tradizione della Chiesa e di tutto ciò che rimanda ad essa, con il fine di trasformarlo un una filosofia immanente in salsa gnostica ad uso e consumo di chiunque, una new age 2.0.

Ecco allora il senso del libro, i diritti dell’uomo contro il popolo. I c.d. diritti umani vengono oggi utilizzati per distruggere il tessuto sociale dello Stato da una parte e la Chiesa dall’altra, uniche due istituzioni storicamente deputate alla tutela civile e religiosa dei cittadini e della società, che si oppongono ontologicamente – cioè data la loro stessa natura – al nuovo ordine mondiale di matrice gnostica. Ecco perché i diritti umani in versione gnostica sono contro il popolo, perché mirano a distruggere le tutele ultime delle creature: lo Stato e la Chiesa. Ecco dunque il luogo in cui si manifesta la gnosi nel nostro tempo: nella teoria distorta dei diritti umani.


BIBLIOGRAFIA:

Jean-Louis Harouel, I diritti dell'uomo contro il popolo (ed. Liberilibri, 2016)

Stefano Fontana, Chiesa gnostica e secolarizzazione (ed. Fede & Cultura, 2018)

Umberto Galeazzi, Pervertimento dell'etica (ed. Chorabooks, 2019)

Hilaire Belloc, Le grandi eresie (ed. Fede & Cultura, 2019)

Grado Giovanni Merlo, Eretici ed eresie medievali (ed. Il Mulino, 1989)

Tommaso Scandroglio, La legge naturale (ed. Fede & Cultura, 2007)

Angela Pellicciari, La gnosi al potere (ed. Fede & Cultura, 2014)




domenica 13 dicembre 2020

Samaritanus bonus - Giovani e Tradizione, 5 dicembre 2020

La Lettera che andiamo a presentare, pubblicata lo scorso 22 settembre, “Samaritanus bonus Lettera sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita”, puntualizza l’insegnamento del Magistero su temi sensibili come, l’eutanasia e il suicidio assistito, l’accanimento terapeutico, le cure palliative, il ruolo della famiglia, la cura prenatale e pediadrica, le terapie analgesiche, lo stato vegetativo e di minima coscienza, l’obiezione di coscienza, l’accompagnamento pastorale, i sacramenti e la formazione degli operatori sanitari. L’insegnamento del Magistero occupa formalmente la seconda parte della lettera ed è preceduta da una prima parte introduttiva, nella quale viene definita la cornice della questione, lo status quaestionis. Diciamo subito che non è raro che un discorso sul dolore e sulla sofferenza diventi più o meno consapevolmente un inno alla vita. Pensiamo – rimanendo nei confini della nostra tradizione letteraria - al carme dei Sepolcri del Foscolo, che nonostante il titolo che porterebbe a pensare ad altro rappresenta un grande affresco del riscatto morale dell’uomo sulla morte; oppure – più specificamente - alla Ginestra di Leopardi, umile simbolo della debolezza umana che aggrappandosi al valore della solidarietà guarda dritto in faccia il dolore e, affrontandolo coraggiosamente, in qualche modo lo sorpassa.
Sono due esempi, tra i tanti, dove la vittoria della vita sulla morte si realizza nella misura in cui la morte viene esorcizzata, aggirata in qualche modo. Se di vittoria dobbiamo proprio parlare dobbiamo avere l’onestà di concludere che si tratta di una vittoria di Pirro perché fondata su una concezione idealistica, quindi romantica, quindi esistenziale della vita, in cui non c’è spazio per la trascendenza, in cui tutto si risolve nel qui e ora. E allora quella domanda antica ma sempre attuale sull’uomo e sul suo destino trova una risposta effimera, che infiamma come paglia il cuore ma che lascia solo cenere. Tutti abbiamo amato Foscolo, Leopardi ma anche - per andare fuori dai nostri confini - Edgar Lee Master e la sua Antologia di Spoon River, in cui la vita sembra quasi riemergere prepotentemente dalle tombe, per poi però ritrovarci tra le mani come un cerino consumato il nostro caro Pirandello che ci riporta con i piedi sulla terra e alla realtà immutata della solita domanda inquietante di cui sopra: qual è il destino dell’uomo e qual è il senso della sua fragilità? E’ davvero quello fatale del vecchierello bianco e infermo del Canto notturno di un pastore errante dell'Asia – simbolo del nichilismo - che “con gravissimo fascio in su le spalle” attraversa affannosamente le vicende della vita “infin che arriva colà dove la via e dove il tanto affaticar fu volto: abisso orrido, immenso, ov’ei precipitando il tutto oblia”? Oppure è altro. E se è altro, che cos’è?
La Samaritanus bonus risponde a questa domanda e lo fa prendendo le mosse dal grande tema  della sofferenza che attraversa come una pugnalata la vita dell’uomo e lo fa con un grande merito: quello di chiarire che il rovesciamento del paradigma dell’esistenza umana da finalista a utilitarista non funziona. E non funziona, molto semplicemente, perché è sbagliato in quanto da un lato non dà risposte mentre dall’altra continua a porre domande, tutte senza risposta e, soprattutto, non è in grado di salvare l’uomo dalla rapina del nulla. Qual è la prospettiva utilitarista di cui sopra: unicamente quella di liberare il vecchietto dal “gravissimo fascio in su le spalle” di cui parlavo prima, appianare le strade e far sì che il suo percorso sia pianeggiante, sereno e beato fino a quando è possibile e utile. Quando non lo sarà più per ragioni naturali il vecchietto potrà precipitare serenamente in quell’abisso orrido e immenso e nessuno potrà salvarlo dalla morte che continuerà ad essere senza senso, un nulla spaventoso. Il punto di partenza della Samaritanus bonus è diverso: è la vita intesa come fenomeno trascendente, cioè come un percorso del quale quello esistenziale è solo l’antipasto o, meglio, il banco di prova dell’uomo inteso come unione inestricabile di corpo e anima, nel quale il primo ha un senso grazie alla seconda, che lo informa e lo qualifica. Dopo l’antipasto, sappiamo, che segue il banchetto, quello eterno, quello a cui ogni uomo, cattolico in particolare, deve aspirare. Infatti, il distacco dell’anima dal corpo non è una scissione ontologica ma la rottura temporanea di un legame indissolubile, effetto inevitabile del peccato originale, che il giudizio di Dio ricomporrà nell’ultimo giorno, giudizio inteso come limite non come atto.
Si tratta di un concetto, nonché dogma di fede abbastanza scontato per un cattolico ma evidentemente dimenticato, posto che si è dovuta muovere la Congregazione più importante della Santa Sede per ribadirlo. Infatti, in questa lotta tra due concezioni opposte della vita - il finalismo e l’utilitarismo - la partita decisiva si gioca sul terreno della “gestione” della fase terminale della vita e qui persino la gerarchia ecclesiastica ha mostrato segni di confusione che la Lettera, intende esplicitamente chiarire una volta per tutte. L’immagine iniziale, di grande impatto, è quella di Gesù presentato come il Buon samaritano, medico del corpo e delle anime, funzione quest’ultima tanto più importante se si considera che è proprio nella fase terminale della malattia che un uomo viene sottoposto alla massima tentazione e quindi l’assistenza non può essere circoscritta alla cura del corpo, comunque destinato a rendere l’anima a Dio. Prendersi cura del prossimo sofferente, dunque, vuol dire riconoscere la dignità della vita nel momento in cui la debolezza prova a toglierle non solo la dignità ma persino il senso, ed è proprio in quell’apparente perdita di senso che si manifesta la potenza salvifica della Croce. Così, possiamo dire con San Paolo “quando sono debole è allora che sono forte”, espressione che rappresenta il rigetto di ogni prospettiva utilitarista, il disarmo dell’ego e l’abbandono alla volontà di Dio e alla sua Grazia che da sola ci basta, nonostante il male che sembra dominare ovunque. San Paolo non a caso racconta un episodio autobiografico nella Seconda lettera ai Corinzi, quando oppresso dal male per tre volte pregò Dio di liberarlo, il quale gli rispose “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo”. Qui c’è tutto l’insegnamento della Salvifici doloris di Giovanni Paolo II – della quale consiglio vivamente la lettura e alla quale rimando – circa il mistero della sofferenza come partecipazione al disegno salvifico di Dio all’ombra della Croce, Spes unica, un’ombra gigantesca che molti, forse troppi, si ostinano a far finta di non vedere, come se Cristo fosse venuto sulla terra in villeggiatura. Se manca questo abbraccio alla Croce, se manca la fede nel disegno salvifico di Dio che si esprime anche attraverso la sofferenza, di fronte all’ineluttabilità della malattia, soprattutto se cronica o degenerativa, la paura porta inevitabilmente al desiderio di controllare e gestire la morte, anche anticipandola, con domanda di eutanasia o suicidio assistito. Ma il Cristo sofferente cos’è se non la prova tangibile della solidarietà di Dio con l’uomo ferito dal peccato originale e destinato ad affrontare il dolore? Il dolore, l’angoscia, il senso di abbandono, persino lo scherno, sono esperienze che troviamo nella passione di Cristo e che colpiscono molti malati considerati un peso per la società che ricerca freneticamente alti standard di qualità della vita e che non si cura del male fisico, morale, psicologico e spirituale. Ma di fronte all’uomo che soffre tutti, operatori sanitari, parenti, amici, volontari, sono chiamati a stare sotto la croce del malato, questo è il grande messaggio morale della Lettera. Sotto la croce – che tanto assomiglia a un letto di ospedale - ci sono infatti quelli che sono lì perché hanno timbrato un cartellino, per dovere, ci sono i curiosi, gli indifferenti, c’è chi passa per caso e suo malgrado è costretto ad volgere lo sguardo. Sono sotto la croce ma non stanno sotto la croce. Poi ci sono quelli che stanno ed è proprio per mezzo di quelli che stanno, malgrado tutto, che si manifesta l’amore di Dio. Stare è la manifestazione più alta dell’amore, perché significa unire la propria sofferenza a quella del malato (“Piangete con quelli che sono nel pianto”, Rm 12, 15). Stare non indica una posizione ma un atteggiamento di lotta; infatti tra i vari significati del verbo latino stare c’è proprio questo, la preparazione alla lotta (pensiamo anche statue greche in posizione stante, la posizione che precede l’azione bellica). Questo è l’atteggiamento – indica la Lettera - che bisogna avere nei confronti dei malati, che non è semplicemente un somministrare le cure, ma è qualcosa di più. Stare con il malato significa condividerne l’esperienza, perché la condivisione produce la Speranza e la Speranza rende sopportabile il dolore perché la Speranza è l’amore che resiste alla tentazione della disperazione. È lo sguardo di Maria che stando sotto la croce rese a Cristo il dolore sopportabile (Stabat mater dolorosa iuxta crucem lacrimosa), perché l’amore è più forte di qualsiasi dolore ed è proprio nell’esperienza di sentirsi amati che anche la sofferenza estrema trova il suo senso. Per questo sarebbe il caso, prima di leggere questo documento, approfondire l’insegnamento della Salvifici doloris, che ne costituisce la premessa fondamentale. Sofferenza che - come la ghiandola pineale cartesiana - lega il Creatore alla creatura rendendola non solo partecipe, ma addirittura co-protagonista del disegno salvifico che ha avuto origine – forse molti lo dimenticano – da uno strumento di sofferenza: la croce, le cui ferite non a caso Cristo non ha nascosto nel suo corpo gloriosamente risorto, per ricordarci che la salvezza passa necessariamente dalla croce. Proprio per questo la Lettera ribadisce il suo fermo no ad ogni forma di eutanasia o suicidio assistito, che ripugnano al diritto naturale e sono espressione di una concezione utilitaristica dell’esistenza, geometrica e sicuramente immanente. Si badi bene, la visione utilitaristica della vita di per sé non è negativa ma lo diventa quando costituisce il criterio di discernimento tra una esistenza ammissibile e una da troncare ad ogni costo, proprio perché l’esistenza, la vita, per definizione non può essere spenta prima del finale che Dio ha scelto per ognuno di noi. Ecco perché anche questo documento è un grandioso inno alla vita, difesa fino all’ultimo respiro, concepita correttamente come fenomeno trascendente. Cosa ci lascia il documento? Tante cose. Io, traendo un po’ le conclusioni prima di passare la parola a Valentina che si occuperà dell’insegnamento del Magistero, vorrei sottolineare un aspetto sul quale invito alla riflessione. La Lettera pone una sorta di altolà a forme pericolose di relativismo etico attraverso l’affermazione netta di valori o principi non negoziabili e atemporali, cosa non scontata dopo quello cui abbiamo assistito negli ultimi anni. Nel caso che ci occupa, la difesa della vita attraverso un corretto inquadramento dottrinale e, particolare non secondario, filosofico: una cosa è parlare di trascendenza, altra è parlare di trascendentale con tutte le implicazioni pratiche che ne seguono. Questo viene finalmente detto ai livelli che contano e la cosa non può che farci piacere.


mercoledì 13 maggio 2020

La lezione di Asia

Da un paio di giorni – seguendo dibattiti appassionati in rete - mi frulla in mente la famosa storiella dei due giovani pesci che incontrano un pesce più vecchio che nuota in senso contrario, il quale fa loro un cenno dicendo: “Salve ragazzi, com’è l’acqua?”. I due giovani pesci non rispondono, continuano a nuotare per un po’ e alla fine uno di loro guarda l’altro e fa: “Che diavolo è l’acqua?”.
Ora, non conoscere l’acqua nella quale si nuota comporta in generale delle conseguenze prevedibili, tipo cacciarsi in situazioni poco piacevoli. Questo vale per chi nuota in uno stagno ma anche per chi si avventura nel mare magno della rete.
Voi come definireste l’acqua in cui nuotiamo oggi? Non vi viene in mente niente? Ci provo io: è un miscuglio di relativismo, neo umanesimo, storicismo e nominalismo. Un percolato ideologico che genera quel mostro chiamato nichilismo: un unico pensiero, un’unica religione, un’unica filosofia, un unico popolo, un unico mercato, un’unica moneta, un’unica lingua, un’unica morale, un’unica legislazione.
E’ il vecchio sogno gnostico che periodicamente presenta il conto alle civiltà decadenti: un’immensa menzogna che nella sua edizione attuale, come un cancro della peggiore specie, ha ormai sparso le sue metastasi ovunque: dagli asili alle università, dalle televisioni ai giornali, dalla pubblicità al cinema, alle istituzioni, etc.. Un incubo che ormai è una realtà alla quale nemmeno i baluardi della nostra civiltà sanno resistere: gli stati nazionali, la Chiesa (cattolica e ortodossa) e la famiglia.
E’ questa l’acqua in cui nuotiamo, cari amici.
Ma come siamo giunti a questo punto? E’ una storia troppo lunga.
Quello che dobbiamo chiederci è cosa possiamo fare? Battaglie contro i mulini a vento su Facebook o Twitter? Lasciate perdere, date retta a me. Non ci credete? Volete provare? Va bene, provate. Provate a sostenere una opinione critica nei confronti dell’immigrazionismo umanitario senza alcuna regola o una lettura storica alternativa; provate a vivere la vostra fede cristiana difendendone l’unicità e praticando l’evangelizzazione; provate in certi contesti ad affermare la supremazia della filosofia greca rispetto a quella idealista; provate a rivendicare al confine e al territorio la patente di baluardo della civiltà; provate a difendere la libertà di un popolo di darsi regole economiche e finanziarie a tutela dei propri interessi; provate a sostenere che esiste una sola morale derivante dall’ordine naturale, finalizzata alla salvezza della propria anima e non alla soddisfazione dei più bassi istinti; provate a proporre il ritorno al primato della legislazione nazionale rispetto a quella europea. Provateci. Cinque minuti dopo diventerete razzisti, nazisti, reazionari, clericali, fondamentalisti, retrogradi, ignoranti, provinciali, bigotti, fascisti di merda, nostalgici etc.. E se non ve lo diranno, questo penseranno di voi, dormite tranquilli.
Cosa fare allora? Rassegnarsi alla barbarie nichilista che tutto infesta? Ovviamente no. Ma questo, cari amici, è il tempo di essere “docili come colombe e astuti come serpenti”. Non è il tempo di sguainare spade per dimostrare che le foglie sono verdi d’estate o attizzare fuochi per convincere la gente che due più due fa quattro, come scriveva Chesterton.
Una cosa dobbiamo fare, solo una, ed è una cosa relativamente semplice: non essere complici. Possiamo farlo seguendo la lezione del grande Aleksandr Solzenicyn che così scriveva: “Anche se la menzogna ricopre ogni cosa, anche se domina dappertutto, su un punto siamo inflessibili: che non domini per opera mia. La nostra via è: non sostenere in nessun caso consapevolmente la menzogna”.
Scoprire il grande imbroglio può essere il primo atto della nostra Resistenza, il primo piccolissimo passo verso la Liberazione, quella vera ovviamente. Facciamolo traendo coraggio dai grandi esempi di libertà che abbiamo sotto gli occhi ma che le grancasse del pensiero unico ostinatamente ci nascondono.
Uno solo di questi esempi voglio proporvi, in giorni in cui insulse pagine bianche riempite di nulla vengono proposte dai soliti chierici del mondialismo nichilista come le novelle eroine del nostro tempo. Il suo nome è Asia Bibi, una donna pakistana condannata a morte per aver difeso con tutta sé stessa la propria fede cristiana in un paese musulmano, rifiutandosi di pronunciare l’abiura che le avrebbe garantito la salvezza. Per nove lunghissimi anni si è aggrappata all’unica cosa che le era rimasta, la propria fede, e l’ha difesa a costo della propria vita.
In questi giorni di infinite e stucchevoli polemiche, di risse virtuali da saloon e chiacchere da bar, di condanne senza appello all’ignominia per chi osa andare contro la corrente, trovate un momento per riflettere sulla vicenda umana di Asia Bibi e sulle vie impensabili che la Verità trova per trionfare.
Scoprirete che la sua è una bella storia ma, soprattutto, che la libertà ha un prezzo che ognuno di noi deve essere disposto a pagare prima o poi. E allora, forse, darete un senso agli insulti che ricevete per la vostra piccola testimonianza resa alla Verità e, chissà, imparerete a guardare con un po’ di indulgenza persino chi non perde occasione per denigrarvi pubblicamente.

domenica 3 maggio 2020

Le Messe e il popolo

“Noi vogliam Dio” è un inno un tempo molto diffuso ed amato, anche perché legato alla devozione mariana e, in particolare, alle apparizioni di Lourdes. E’ un canto popolare e appassionato che esprime il desiderio di Dio insieme a quello di una cristianizzazione dell’intera società che, in ogni tempo e ad intervalli più o meno regolari, ha sempre avuto la tentazione mondana di escludere il Creatore dal proprio orizzonte.
Il testo dell’inno può apparire superato a chi è ormai abituato alle sottigliezze e alle sfumature di certo linguaggio corrente, ma non a chi crede ancora nel parlare chiaro, nel sì sì no no, anche alla luce delle vicende legate all’epidemia in atto e ai conseguenti disagi che i fedeli continuano a sopportare.
In questo tempo e in un contesto sociale fortemente secolarizzato, la dolorosa privazione del Santo Sacrificio dell’altare e dei sacramenti ha reso quanto mai concreto e attuale nei fedeli il sentimento della “mancanza” di Dio, quel Dio che sicuramente ognuno può pregare da casa o nel  segreto della propria stanza (Mt 6,6), ma che si incontra e riceve “realmente” in Corpo, Sangue, Anima e Divinità solo nel Sacramento dell’Eucaristia, nello specifico luogo in cui due o più sono riuniti nel nome di Cristo, cioè – ordinariamente - in chiesa (Mt 18,20).
Questo è ciò in cui noi cattolici crediamo, e i principi sui quali la nostra fede si fonda sono gli stessi da 2000 anni. Non mutano, né sono negoziabili. Stat crux dum volvitur orbis.
L’Eucaristia non è una rivendicazione sindacale o il capriccio del bigotto di turno, né il mero oggetto di una cerimonia o di una rappresentazione sacra.
Per chi ha il dono della fede nel Dio Uno e Trino l’Eucaristia è il pane di vita, è il nutrimento dell’anima. E’ Cristo.
Può forse l’uomo sopravvivere senza nutrirsi? Ovviamente no.
E difatti in questa emergenza sanitaria, rispettando diligentemente i protocolli di sicurezza, tutti hanno avuto la sacrosanta possibilità di fare la spesa, ma anche di andare in farmacia, alla posta o al tabacchino e, tra qualche giorno, persino al museo o in biblioteca.
Ora, passata -  a quanto pare – la fase critica dell’epidemia nessuna persona di normale buon senso si sarebbe aspettato, né avrebbe avallato, una riapertura indiscriminata delle chiese e un accesso senza regole alle Sante Messe. Sarebbe stata una follia.
Ma il rinvio di fatto sine die delle celebrazioni liturgiche con il popolo appare non meno dissennato perché presuppone – a non voler pensare male – l’idea della chiesa non come luogo a rischio contagio ma come luogo di contagio. Ciò è con ogni evidenza falso e bene ha fatto la Conferenza Episcopale Italiana a far sentire la propria voce in modo risoluto. Ma oltre che falso appare discriminatorio, perché con la stessa logica tante altre attività avrebbero dovuto essere parimenti vietate e invece – giustamente – con le dovute e necessarie cautele (facilmente applicabili alle celebrazioni liturgiche) possono operare senza alcun rischio per la salute pubblica.
Non stiamo qui a fare esempi o inutili polemiche, quelli di cui sopra sono più che sufficienti per chi ha occhi per vedere e orecchie per intendere.
Confidando nell’azione dei nostri Vescovi e nell’aiuto della Divina Provvidenza auspichiamo una rapida, ragionevole e positiva soluzione della vicenda, anche alla luce del chiaro dettato della Costituzione e del Concordato in atto tra lo Stato e la Chiesa Cattolica.
Come cristiani diamo volentieri a Cesare quel che è di Cesare, ma nessuno osi negare a Dio quello che Gli appartiene (Mt 22,21).



venerdì 19 aprile 2019

Benedetto XVI e la piaga della pedofilia

Recentemente Papa Benedetto XVI è intervenuto sul tema della pedofilia che infesta la Chiesa, suscitando un vivace dibattito e diverse polemiche, sopratutto per avere collegato il fenomeno al collasso morale del 1968. Francamente non credo che Benedetto XVI sia così sprovveduto da pensare che la pedofilia derivi dalla rivoluzione sessuale che, tutt’al più, ha aggravato il problema. Ha semplicemente usato un tema sensibile al popolo per denunciare l’origine dei mali della Chiesa del nostro tempo. Come l’uomo che punta il dito per indicare la luna. Il senso del suo intervento a mio avviso è chiaro: 50 anni fa hanno voluto la Chiesa "in uscita", hanno sostituito il gregoriano con le chitarrine, hanno voltato le spalle a Dio per guardare in faccia il popolo, hanno messo in soffitta la dottrina per lasciare campo libero alla prassi pastorale, hanno sostituito Cristo con il povero (oggi con il migrante) smettendo così di parlare della vera ricchezza del cristianesimo, cioè la sua dimensione trascendentale, hanno sostituito Tommaso d'Aquino con Karl Rahner e altri teologi della medesima risma, hanno nascosto i tabernacoli nelle chiese, hanno smontato le balaustre e reso libero l'accesso a chiunque nei presbiteri... tutto bello, tutto giusto, tutti felici, tutti contenti: i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Sbaglio o Gesù diceva “dai frutti li riconoscerete”? Se i frutti sono quelli che vediamo forse chi ha a cuore le sorti della Chiesa di Cristo qualche domanda dovrebbe porsela e Benedetto alla fine questo ha fatto. 
Personalmente me ne sono fatto una ragione da tempo e dormo sonni tranquilli: abbiamo le Scritture, le opere dei Padri della Chiesa e 2000 anni di Tradizione e di Magistero. Un patrimonio inestimabile, unico. La strada è segnata da 2 millenni, stretta e angusta ma diritta, e su quella chi vuole può camminare tranquillamente senza temere nulla, come Daniele nella fossa dei leoni. Chesterton diceva che il cristianesimo è stato dichiarato morto infinite volte ma alla fine è sempre risorto perché è fondato sulla fede in un Dio che conosce bene la strada per uscire dal sepolcro. Aveva ragione. 

martedì 31 luglio 2018

mercoledì 25 luglio 2018

Visione rahneriana del peccato, dai presupposti filosofici alle implicazioni di carattere pratico che da essa derivano.


Ho partecipato ad un seminario dal titolo "La Chiesa è cambiata". Ecco il mio intervento.

Il tema del peccato tocca intimamente ognuno di noi, posto che la vita dell’uomo è una battaglia continua contro il peccato. Mi sembrava un  argomento di carattere pratico e, dunque, interessante, anche in considerazione dell’incidenza che su di esso ha avuto il pensiero di Karl Rahner.
Il mio contributo stasera sarà quello di un semplice appartenente al popolo di Dio sparso sulla terra che si riconosce nei principi eterni della Chiesa cattolica e si sforza di seguirne i precetti, e che nel corso degli anni ha visto sempre più sacerdoti e pastori, dalle periferie alle alte sfere, assumere delle posizioni dottrinali e pastorali che sembrano in contrasto con la sacra scrittura e la tradizione.
Come molti mi sono chiesto da dove derivasse questo processo di inesorabile arresa alle istanze più discutibili della modernità che ha condotto la Chiesa a degradare da luce del mondo a mera comparsa nel grande palcoscenico della storia.
Poi mi è capitato questo libretto di Stefano Fontana tra le mani, “La nuova Chiesa di Karl Rahner”, sulla scorta del quale  oggi condivido con voi queste riflessioni.
Fontana ha avuto il merito di scrivere sulla sua teologia un saggio non accademico, agile, essenziale e alla portata di tutti, ed è uno strumento molto utile per opporsi a  delle vere e proprie eresie che ormai vanno per la maggiore. 
Fontana individua la genesi di un fenomeno che è sotto gli occhi di tutti. La sua opera è paragonabile ad un impietoso referto medico, che individua la causa del male pur senza prescrivere alcuna ricetta. A questo ci ha pensato Rod Dreher, con il suo Opzione Benedetto, che ha avuto uno straordinario successo negli Stati Uniti e del quale credo parleremo nell’incontro di settembre.
Fontana non prescrive ricette perché è sicuro del fatto che la verità della fede verrà ristabilita; secondo lui - a ragione - la Chiesa possiede dei meccanismi di auto correzione degli errori che ad un certo punto si attivano come dei veri e propri anticorpi ricollocandola sui binari della verità.
Egli sembra puntare il dito con la c.d seconda modernità che si è insinuata come un cavallo di Troia all’interno della Chiesa di Cristo per attaccarla dall’interno. Denuncia questo immanentismo antropocentrico che come un fiume carsico ha minato le fondamenta di una struttura che sembrava eterna e incrollabile. Karl Rahner stava dentro il cavallo anzi era Ulisse. Questo per dire che non è stato l’unico teologo che ha inciso dal di dentro in maniera così profonda sulla dottrina della Chiesa ma che di tale processo è stato il principale protagonista.
Rahner in sostanza non ha provato a demolire la Chiesa dall’esterno per la semplice ragione che la Chiesa non può essere distrutta dall’esterno. La storia insegna che da quando è stata fondata è stata sottoposta e lo è tuttora ad ogni genere di persecuzione ma dal sangue dei martiri essa ha tratto sempre nuova linfa.
Ma anche a livello teologico e prima ancora filosofico vale lo stesso discorso. Pensiamo a quante eresia la Chiesa ha dovuto combattere e sconfiggere.
Ma come ha fatto Rahner a portare a compimento la sua opera? La teologia - dice Fontana - non è una scienza umana dotata di un linguaggio autonomo ma ha bisogno di un codice ad essa esterno per essere spiegata, come la fisica ha bisogno della matematica. Questo codice è la filosofia, e come un buon linguaggio produce un buon discorso, una buona filosofia produce una buona teologia.
Qual’è il codice, la filosofia che tradizionalmente è stata assunta dalla teologia cattolica come linguaggio? E’ la filosofia greca, è Platone con la sua trascendenza ed è Aristotele con la sua immanenza.
Trascendenza e immanenza, concetti apparentemente inconciliabili - rappresentati figurativamente al centro del meraviglioso affresco di Raffaello Sanzio, La scuola di Atene - mirabilmente fusi da San Tommaso d’Aquino, la cui opera ha condotto il cristianesimo al perfetto equilibrio tra immanenza e trascendenza, tra fede e ragione, tra rivelazione e logos.
Rahner probabilmente si rendeva conto che sarebbe stato impossibile contrastare la teologia S. Tommaso sul terreno in cui essa è radicata. Consapevole di ciò, ha aggirato l’ostacolo usando un meccanismo tanto audace quanto semplice per minare dall’interno la Chiesa: ha cambiato i codici - cioè la filosofia - con i quali interpretare la teologia, assumendo un approccio, cioè una filosofia, fenomenista di stampo hegeliano, kantiano e quindi heideggeriano.
Ha cambiato cioè il terreno di scontro e in quel terreno, liberatosi di S. Tommaso, ha avuto gioco facile.
Uno dei temi su cui la teologia di Rahner ha maggiormente inciso è quello del peccato, un tema che tocca ognuno di noi, impegnati quotidianamente nel mondo in una lotta continua con esso.
Per la teologia tradizionale, che considera l’anima in senso ontologico come una sostanza, nessun discorso sul peccato può essere sganciato da un discorso sull’anima, come luogo metafisico sul quale il peccato esplica i suoi effetti.
In questa prospettiva il peccato è legato in maniera inestricabile alla rivelazione e al diritto naturale, che della prima costituisce il fondamento razionale sul quale la seconda si innesta senza immedesimarsi. Fede e ragione delineano i confini del lecito ontologico, oltre i quali vi è una inevitabile condizione di peccato.
Agganciare il peccato al diritto naturale come fondamento della rivelazione, diritto naturale che i romani - nostri padri nel diritto - individuavano in quod natura omnia animalia docuit, significa fare il modo che una condizione di disordine, cioè di rottura dell’ordine naturale, venga immediatamente avvertita dall’uomo. Zero alibi dunque. 
Ed è proprio questa assenza di alibi sentiamo tutto il peso quando nella messa cui abbiamo il privilegio di assistere recitiamo per 3 volte l’invocazione Domine non sum dignus ut intres sub tectum meum, sed tanto dic verbo et sanabitur anima mea.
Legare il peccato ad una dimensione trascendentale e naturale insieme significa definirlo ontologicamente: peccato come morte dell’anima in quanto sostanza, come un male che può essere vinto solo da una forza divina contraria, dal sacrificio di Cristo che in quanto Dio poteva sconfiggere il peccato e continua a farlo innanzi tutto mediante il santo sacrificio della messa, che non è evidentemente la rievocazione di una cena.
In questa prospettiva la Chiesa di Cristo è portatrice di un messaggio che il mondo da solo non può darsi e la dottrina sociale è lo strumento attraverso il quale la Chiesa lo diffonde; un messaggio di salvezza derivante dalla rivelazione e che si insinua in una base naturale che riflette l’ordine voluto da Dio che non può essere negato e che precede qualsiasi pastorale per orientarla. Un messaggio di salvezza e i mezzi per ottenerla, cioè i sacramenti.
Questo è quello in cui credevano gli Apostoli, questo è quello in cui crediamo.
Per Rahner, al contrario, il binomio fede (rivelazione) e ragione non ha motivo di esistere, secondo una concezione di stampo protestante, in quanto la grazia si identifica con la natura e il peccato, quindi, va rapportato solo alla rivelazione, la quale, tuttavia, è intesa in maniera del tutto differente rispetto alla tradizione della Chiesa, secondo la quale essa non precede il mondo ma si cala sul mondo per costituirne l’orizzonte al quale tendere.
Per chiarire il suo pensiero Rahner fa ricorso ad una immagine abbastanza bizzarra ma di una certa efficacia: il buco della serratura.
Secondo Rahner Dio si auto comunica all’uomo, a tutti gli uomini indifferentemente, ed è il nostro a priori esistenziale (Kant), l’orizzonte che ci precede e che da senso a tutte le nostre domande e conoscenze ma non può essere a sua volta conosciuto. 
Per spiegare questo Rahner usa l’immagine del buco della serratura: possiamo vedere ciò che c’è al di là del buco ma quello che c’è dietro di noi nella stanza buia, Dio, non possiamo vederlo né conoscerlo se non nella misura in cui egli si rivela in noi stessi e poi nella realtà che sta oltre il buco (trascendentale moderno: mix di gnosi e panteismo). E siccome la realtà è mutevole, la storia si evolve e Dio si rivela nella storia, dentro la storia, anche Dio, i principi che dalla sua rivelazione derivano e i relativi precetti si evolvono nel tempo (Hegel).
Dio viene storicizzato.
Ora se Dio è questo orizzonte che ci precede e che noi possiamo solo intuire ma non conoscere, se tutto deriva da Dio eterno e mutevole, i segni della rivelazione si trovano in tutta la realtà eternamente mutevole, in noi stessi e nel mondo, sta a noi saperlo cogliere.
E’ chiaro che se le cose stanno così il rapporto tra Chiesa e mondo cambia prospettiva. La Chiesa non ha nessun messaggio di salvezza esterno da portare al mondo in quanto il messaggio di salvezza l’uomo lo porta dentro di sé; non è né più né meno di ogni altra umana istituzione in cui Dio si manifesta, non può giudicare né le situazioni né le persone ma deve convertirsi al mondo in quanto teatro della opera di Dio, deve essere Chiesa in uscita, deve aprirsi al mondo, alle culture diverse, ai modi di pensare, deve accompagnare, anche se non è ben chiaro dove, deve formare coscienze. Questa è la Chiesa di Rahner. Una ONG.
Il mondo da campo evangelico dove Dio getta le sue sementi diventa il palcoscenico della fenomenologia di Dio in cui in ogni situazione può intravedersi la sua grazia che, quindi, si identifica con la natura.
Se le cose stanno così è evidente che il peccato viene confinato in situazioni esistenziali limitate:
  1. Essendo legato alla rivelazione, ovvero all’auto comunicazione di Dio nel mondo, il peccato viene storicizzato, cioè legato unicamente all’hic et nunc, in quanto i segni della rivelazione di Dio si rinnovano eternamente.
  2. Essendo storicizzato, rileva solo dal punto di vista fenomenico e non ontologico. E’ peccato solo ciò che appare peccato alla mia percezione.
  3. Essendo legato alla percezione fenomenica, ha una natura esclusivamente esistenziale, cioè legato alle relazioni umane ed è in definitiva una situazione di errore da correggere se vogliamo, Rahner ce lo concede, con la confessione che da sacramento diventa una sorta di riconciliazione con la comunità, un omaggio allo stare insieme, al “vogliamoci bene”, questo perché nella dimensione esistenziale tutte le situazioni sono convertibili non essendoci alcuna morte ontologica da recuperare. Per Rahner, infatti, l’anima non è una sostanza ma un aspetto della soggettività esistenziale dell’individuo e dunque non esiste il peccato mortale che fa morire l’anima perché nell’esistenza tutto è convertibile, recuperabile attraverso quel percorso di discernimento che tanto va di moda.                                                  
In questa prospettiva è evidente come ciò che manca è il parametro di riferimento oggettivo (ben saldo in San Tommaso) essendo tutto demandato in ultima analisi alla coscienza individuale, anch’essa intesa in senso storico - esistenziale, quindi mutevole. Ma soprattutto manca qualsiasi riferimento all’anima.
A questa deregulation esistenziale non sfugge il peccato originale per il quale Rahner utilizza una delle sue metafore paradossali: la buccia di banana.
Rahner nega sostanzialmente il peccato originale, considerandolo un mito che va spiegato secondo parametri esistenziali come un male storicamente sedimentato ma che non influenza la realtà perché si è già esaurito nella storia appunto, come lo sfruttamento - che so - dei bambini africani in occasione della raccolta delle banane, che non portano con sé gli effetti di quello sfruttamento ma lo rievocano. 
Applicando quindi alla teologia una filosofia fenomenista heideggeriana le conseguenze pratiche ai fini del tema specifico che stiamo trattando - il peccato - sono enormi.
Pensiamo all'eutanasia. Da un punto di vista esclusivamente fenomenico, il malato terminale non può nemmeno considerarsi vivo, quindi staccare la spina è quasi un atto di pietà. Se non ho in mente il significato ontologico della vita umana, della sua sacralità dal concepimento alla morte, è evidente che un peccato mortale può benissimo essere scambiato per atto di misericordia.
La teologia di Rahner è probabilmente influenzata dalle vicende personali del teologo, che pare non fosse un modello di castità pur essendo un gesuita. Ma questo aspetto non ci interessa.
Di sicuro indubbiamente è una teologia che si allinea perfettamente alle esigenze del mondo, quindi attira e affascina. Affascina perché rappresenta una porta larga e una via comoda per affrontare il spaziosa in questa vita. Cosa potrebbe chiedere di meglio l’uomo del 2000, abituato alle comodità che la modernità offre?
Ma questa teologia che ha influenzato quello che la Chiesa ci propone a credere e quello in cui essa stessa sempre credere, è lo stesso in cui credevano gli apostoli, che sono morti per testimoniare la verità? Evidentemente no.
Grazie a Dio non basta un trucco speculativo, seppur geniale, per demolire la Chiesa di Cristo. Quella di Rahner è un’impostazione sbagliata e per capirlo basta tornare alle scritture perché, come sta scritto, “passeranno i cieli e passerà la terra, la sua parola non passerà”.
Chi abbraccia Cristo, infatti, non abbraccia le comodità del mondo ma la sua croce.




sabato 12 dicembre 2015

Il governo dei migranti

In Italia il tema dei migranti viene trattato per lo più con il paraocchi dell'ideologia. Per alcuni dovremmo spalancare le porte a tutti, come se vivessimo nella terra di nessuno; per altri dovremmo respingerli senza distinguo, come se fossimo dei senza Dio o dei senza cuore. I governi degli ultimi 20 anni sono stati incapaci di governare il fenomeno, se non addirittura complici di chi grazie al caos ci ha guadagnato un sacco di soldi. Governare il fenomeno vuol dire prima di ogni altra considerazione distinguere tra profughi e migranti economici, perché anche i gommoni che li trasportano sanno che quelli che attraversano il mare non provengono tutti da paesi in guerra. Se metti tutti nello stesso calderone pretendendo di regolare (si fa per dire) casi opposti in maniera identica allora il fenomeno rimarrà una piaga destinata a incancrenirsi, con imprevedibili risvolti sociali. Se consideri il migrante economico come una vittima dell'imperialismo da risarcire a prescindere, anche a costo di svendere i nostri valori e i nostri confini, allora sei sganciato dalla realtà perché vivi nel mondo dei sogni ideologici. Allora sarà inutile trovare una strada sotto il mare o dentro il cuore degli altri, come cantava il buon Fossati, sarà inutile e retorico piangere i bimbi morti sulle spiagge perché tanto il problema semplicemente non lo si vuole risolvere ed è destinato a rimanere irrisolto. Almeno finché si ragiona in questi termini.

sabato 6 novembre 2010